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Cento misure e un taglio: intervista a Claudio Benoffi

Un dipinto di BenoffiSono in ritardo. Sono in estremo ritardo sulla tabella di marcia e, per quanto tenti di recuperare correndo, il mio ritardo può solo che aumentare.
Mi scuso innanzitutto, e solo dopo porgo la mano dicendo: “Piacere, sono…”. Quell’uomo seduto con lo sguardo che riverbera un sorriso silenzioso, interiore, ma estremamente sincero, completa la mia frase: “…maledetta!”. Pronuncia quella parola con una leggerezza e un’ironia tale che non posso fare altro che scoppiare a ridere: “No, non Maledetta, mi chiamo Laura!”. Il ghiaccio è così subito rotto.



Claudio Benoffi è un pittore della “vecchia guardia”. Uno di quelli che non vuole essere chiamato artista perché “è una parola talmente abusata che non ha più alcun senso! Che significa artista? Chi è tanto audace e ingenuo al tempo stesso da potersi definire artista? Mi provoca fastidio essere chiamato artista! Esiste un solo termine peggiore di “artista” ed è “Maestro”. Quando ti chiamano Maestro, vuol dire che sei finito!

Non è molto il tempo trascorso che, l’intervista programmata, è rimpiazzata dal racconto libero di un pezzetto di vita inscindibilmente mischiata all’arte. E l’arte, in questo caso, è soprattutto professione. Claudio ha una risposta per ogni domanda. Risponde per similitudini citando Aristotele, Metastasio, intraducibili termini in uso nella lingua tedesca, casi e leggende del passato. A ogni circostanza accosta il corrispettivo storico più idoneo: eventi e intrecci, d’arte ma non solo, che in pochi conoscono. Benoffi si diverte a mettermi alla prova. Una scolaretta sotto esame che con il tedesco se la cava malissimo. 

Un altro dipinto di Claudio Benoffi Mi racconti qualche aneddoto dei tuoi primi approcci con la “materia” arte?

Beh, ovviamente, come tutti, ho cominciato a disegnare da piccolo. Solo che non sono stato subito compreso. Un tempo, quando il Direttore faceva visita alla classe, le maestre ci tenevano a mostrare i risultati ottenuti, mettendo alla prova gli alunni con brevi quesiti sulle varie discipline da risolvere alla lavagna. La prima volta che toccò a me fui bravo a rispondere correttamente a ogni domanda, ma proprio nel momento del disegno mi mandò a posto dicendo: “Claudio è bravo in tutto a esclusione del disegno!”. Solo a distanza di parecchio tempo ho capito il perché. Di fatti, i bambini tendono a disegnare i tratti distintivi degli oggetti, le caratteristiche principali che li rendono riconoscibili. Così, ad esempio, dovendo disegnare una casa, faranno il “logo” corrispettivo, non una casa con particolarità ben precise. Questo vale anche per il corpo umano che sarà sintetizzato in un “pupo” filiforme e senza spessore . Di contro, io a sei anni facevo già la massa muscolare. Mi rendevo conto che un braccio o una gamba non è una semplice linea retta, ma c’è una struttura ben più complessa, anche se non ero ancora perfettamente in grado di renderla nella giusta maniera. È insolito vedere una rappresentazione simile fatta da un bambino, credo fosse per questo che, nel disegno, sono stato considerato piuttosto scarso. I miei lavori non erano armonici e quindi, non erano belli e puri come di soliti è il disegno infantile. Nel giro di poco tempo però, ho recuperato: a dieci anni contrabbandavo disegni scambiandoli con i compiti di matematica!

Come ti sei avviato alla professione del pittore? Quali sono le tappe principali?

Di sicuro fondamentale è stato l’incontro con Cesarina Gerunzi, allieva a sua volta di Giovanni Fattori e Achille Formis. Lei mi ha incoraggiato a continuare e a migliorare. La prima opera l’ho venduta a sedici anni. Pensa che rubai un’anta di armadio a mia nonna per farla! Mi serviva un supporto degno! Poi mi sono trasferito a Milano e lì ero una specie di ghost painter. Praticamente realizzavo i disegni di base per un noto pittore e lui si limitava a colorarli. Mi ci è voluto un po’ di tempo prima di farmi notare. All’interno di tale cerchia, quando chiedevo qualche parere mi sentivo rispondere che il mio disegno non era ancora all’altezza del grande “Maestro”. Dicevano: “Vedi che tratto che ha! Lascia stare il colore… ma il tratto…!”. Però, ufficialmente, ero già pittore di professione anche se a mia madre sembrava strano: “Ma co’ fanne, te ce pagano pure?!”. A ventitré anni invece, ho esposto nella mia prima personale a Milano.

Sei sempre riuscito a vivere di pittura?Un altro lavoro di Claudio Benoffi

Sì, direi di sì, anche se in alcuni casi ho dovuto conciliare tale professione con altri piccoli mestieri. Pensa che, una volta, un giornalista andò a fare visita a mia madre. Parlando, lei gli disse che lavoravo a Milano, che quello che facevo aveva a che fare con il disegno e con la pittura, ma non sapeva e non capiva di preciso di cosa vivessi: “Che Dio l’perdoni!”.

Quindi per te, la pittura è stata sempre e solo una professione? Non ha nulla a che fare con una sorta di funzione primaria dettata dal “fuoco sacro” dell’arte?

Questa è la visione romantica dell’arte. Nell’arte non c’è nulla di eroico. È un mestiere come un altro. Certo, ho la fortuna di fare ciò che mi appassiona, ma è pur sempre un lavoro. Molti passano la vita in ufficio, io la passo a fare quadri. Gli altri poi vedono solo il risultato, non i procedimenti che ci sono dietro. È abbastanza comune la tendenza a pensare l’arte come un dono divino che marchia chi ce l’ha. Tutte balle! Una volta, è venuta da me una signora per mostrarmi i lavori che faceva suo figlio. Mi chiedeva e mi spronava a farmi dire se quel ragazzo avesse talento oppure no, se pensavo che dovesse continuare con una formazione specifica e, nel caso, quale tipo di percorso le consigliavo. Alla fine, stancato dalle richieste pressanti le ho risposto: “Signora, fate fa’ a vostro figlio quel che je pare, basta che n’se droghi!”

Vivendo di questo, riesci a stare dentro ai tempi di produzione che le opere richiedono?

Di certo non sarei capace di quantificarti le opere che produco, però posso dirti che faccio come i sarti: cento misure e un taglio. Prima di iniziare un’opera, per evitare di perder tempo in inutili rifacimenti o ripassi, cerco di prepararla e studiarla al meglio. Nel momento in cui il pennello tocca la tela, so che non c’è margine di errore. Per il resto dipingere è facilissimo, basta non sbagliare! E io, quando dipingo evito di balbettare.

Una inquietante opera di Benoffi C’è una mostra, un evento e/o una tua opera che ricordi con maggior piacere o affetto?

Mah, di solito non sono un “animale” da compagnia, soprattutto durante mostre o vernissage. C’è stato un caso però, in cui un signore, in una mia opera, riconobbe Cagli. Ecco, questo è un episodio che ricordo con piacere e soddisfazione, perché evidentemente, in quel caso, ero riuscito a riprodurre il sapore del luogo. Per il resto, durante le inaugurazioni, mi mimetizzo con i visitatori e comincio a sparlare delle opere… Per quanto riguarda un mio lavoro invece, sono affezionatissimo a quello che farò domani!

Come mai quest’avversione alle inaugurazioni, mostre e eventi d’arte?

Perché in questi casi sono todos caballeros! La gente ripete sempre i soliti luoghi comuni. Mi stancano i luoghi comuni e mi stanca la gente. Il pittore è, e resta, una persona sola: lui e la sua tela, null’altro. Alle inaugurazioni sono tutti bravi, grandi complimenti, plausi… ma sono eventi vuoti, fini a se stessi. Sembra di assistere a una gara a chi sa “descrivere” meglio l’opera. Si trattano i dipinti come fossero best sellers editoriali. Ciò di cui si parla è il canovaccio, la trama, nessuno racconta lo stile. Non ci si preoccupa di soffermarsi sulla forma, sul metodo e sul procedimento per la realizzazione. Così, il contenuto predomina sulla forma, ci si dimentica che possiedono entrambi uno specifico gravo e responsabilità e che, il loro sodalizio soltanto, può innalzare a capolavoro quella che altrimenti sarebbe una semplice opera. Tutto ciò, alle volte è grottesco: un dipinto dice cose che nessuno potrà mai capire fino in fondo.

Siamo nel periodo della Fiera di Bologna. A tal proposito, che ne pensi del mercato e dell’arte coeva in genere?

Penso che sia un panorama desolante. È come un’opera teatrale composta per lo più da caratteristi, non da veri attori. Molti campano di inventiva: la stessa idea portata avanti per tutta la vita. Ripetere sempre la stessa e identica cosa, nella vita quotidiana vuol dire essere rincoglioniti… ora fai te! Pensa che un tempo, prima che comparisse la figura del mercante, spesso le opere non erano neanche firmate. Nel rapporto fra bottega e committente, ciò che determinava il prezzo di un’opera era semplicemente l’impiego delle materie prime: ci vuoi più azzurro? Bene, l’azzurro costa caro, quindi il prezzo del lavoro sale. Ora, invece, a determinare il valore di un’opera è solo il nome di chi l’ha fatta, tant’è che, non importa che un’opera abbia un titolo, può semplicemente essere Untitled, tanto verrà indicata con il cognome di chi l’ha fatta. Il mercato poi, è del tutto demenziale. Ci si basa sul valore venale e non su quello reale dell’arte. È come stabilire il prezzo di un chilo di patate e di un chilo di diamanti. Se io, avessi un chilo di patate e tu un chilo di diamanti, rideresti di me. Ora, però, fai conto che siamo su di un’isola dispersa e desertica… cosa varrà di più?

Grandi progetti per il futuro?

È prevista una mostra a Pechino entro Giugno. Beh, è un progetto grande… Pechino è grande!

di Laura Coppa

Direttore artistico e curatore
di Artcevia International Art Festival
www.artcevia.org

Redazione Pesaro Notizie
Pubblicato Lunedì 28 gennaio, 2013 
alle ore 18:40
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