Nuovo Amico: riflessione sull’indiano bruciato
Sono in crescendo i fatti di cronaca che vedono i giovani coinvolti in fatti raccapriccianti, come la recente aggressione ad un indiano a Nettuno e, qualche mese or sono, il barbone a Rimini. «Non importava se era romeno o negro. Volevamo vedere se durava.
Eravamo annoiati e volevamo concludere la serata con un gesto eclatante che ci desse tanta emozione». Sono alcune espressioni frutto degli interrogatori effettuati ai giovani minorenni arrestati e incriminati.
Dal punto di vista terminologico preferisco che questi giovani non siano chiamati «branco», perché a tale denominazione si associano delle realtà esterne alla società, come il branco di animali. Questi giovani sono parte integrante delle nostre città e paesi. Hanno di certo ricevuto i sacramenti e, seppur in parte, calcato il terreno della parrocchia e dell’oratorio. Alzare la voce serve, ma più ancora serve parlare con i figli a cena, a pranzo, gli educatori con i ragazzi durante l’incontro, un sacerdote durante l’omelia di quanto accaduto. Il non parlarne può apparire come “naturale” e “ordinario” fare del vivere nella nostra società.
La voglia di provare emozioni forti indica che il terreno dove vivono è divenuto indifferente, non comunica loro più nulla e tutto si è appiattito. Questo vale anche per la comunità cristiana? Di certo ha la sua parte di responsabilità. La Chiesa, la comunità parrocchiale, dinnanzi a tali episodi senta un sussulto forte di trasfusione di umanità nei ragazzi e giovani loro affidati. I nostri figli dispongono di tutto, di troppo. Nella speranza di accontentarli si evita loro ogni difficoltà e sacrificio, comperando beni non necessari ma come sfizio e omologazione con i propri coetanei. La pastorale ordinaria, la catechesi dei bambini e dei ragazzi non può non tenere conto di quanto accade nel nostro Paese, lontano o vicino a casa. Il Vangelo che viene loro annunciato, quale Buona Notizia, non può e non deve essere estranea alle voci che si elevano dalla società. Questi giovani, in modo del tutto deplorevole, stanno gridando che sono pieni di nulla e di vuoto. Lo gridano alla propria famiglia di origine (a volte essa stessa è la prima a minimizzare quanto accaduto, cercando la colpa altrove), lo gridano agli insegnanti a scuola, lo gridano ai sacerdoti della parrocchia e lo gridano anche al proprio gruppo di amici. Viene ascoltato tale grido o soffocato con compassione o sterile buonismo o incapacità a fare?
Tali ragazzi, certamente, non sono cattivi nel cuore ma sono con il cuore a pezzi, frantumato dall’egoismo e dalla voglia di affermarsi nella società. Penso alle loro fidanzatine, se le hanno, e penso a che cosa diranno loro dopo quanto accaduto. L’amore è una cosa seria e non si costruisce un rapporto affettivo dandosi ogni tanto un diversivo perché anche il rapporto affettivo di coppia, forse, non dice e non da più nulla.
Se la noia accalappia questi giovani gli si offra, quale via di recupero la strada in una struttura, molto meglio del carcere, dove la vita è messa al centro anche quando essa è muta, non vedente, immobile in un letto. Senza la vicinanza alla sofferenza non si formeranno mai gli anticorpi verso la superficialità. Dalla sofferenza si impara a stare in piedi e con la schiena diritta.
Da Don Giacomo Ruggeri
Vice Direttore de Il Nuovo Amico
Per poter commentare l'articolo occorre essere registrati su Pesaro Urbino Notizie e autenticarsi con Nome utente e Password
Effettua l'accesso ... oppure Registrati!